Il territorio di montagna ha un turismo che è nato 250 anni fa, con l'alpinismo, un'attività che porta chi ha voglia e capacità in zone selvagge, caratterizzate da molteplici pericoli. Il normale turista va invece dove c'è un'infrastruttura, ovvero strade, alberghi, rifugi. Il turismo dunque non va nella wilderness, perché non ha imparato a sopravvivere in quei luoghi.
Noi, i 16 milioni di persone che vivono nella catena alpina, viviamo di turismo alpino. Il turista alpino viene per godersi sia la terra lavorata, di cui il contadino si prende cura da migliaia di anni, sia la parte più alta, montana e selvaggia.
La terra lavorata fa parte essa stessa del paesaggio alpino: possiamo dire che la terra lavorata arriva fino all'altezza delle malghe. Oltre tale altitudine, infatti, l'uomo un tempo non andava affatto. Anche oggi, del resto, è soprattutto la striscia di territorio al di sotto delle zone selvagge a portare turismo, perché la gente viene a godersi questa parte, e a guardare le montagne dal basso. Ma non bisogna mai dimenticarsi che è la somma dei due territori a rendere questo posto speciale e unico.
Il Coronavirus non è ancora finito, ci vorranno ancora mesi, se non anni, per risolvere definitivamente questa problematica. Però già da alcuni mesi, ovvero da quando è possibile ritornare in montagna, abbiamo capito che la spinta verso le malghe è enorme. La gente non si ferma sotto, ma si alza, fino a lì dove ci sono strade e sentieri. Non oltre: oltre quel limite ci sono meno persone di prima. Non c'è più l'alpinista che va a fare una via classica sul Crozzon di Brenta o sul Cimon della Pala. Pochissimi lo fanno, e non è grave, meglio, perché quella zona è frequentata solamente da chi ha effettive capacità alpinistiche.
Però in qualche malga, in determinati luoghi montani, vedo anche troppe persone: le malghe diventano degli hotspot, e non possono più dare al cliente la possibilità di guardare le montagne con grande rispetto, perché c'è troppa gente attorno. In questi casi ci ritroviamo nuovamente in una cultura di città, e non più in una cultura di montagna. È positivo il fatto che il Coronavirus abbia dato alle persone l'illusione che andando in montagna ci sia un rischio minore di contagio, ma vedo comunque delle concentrazioni nei luoghi montani più famosi, dove possiamo anche parlare di overtourism. in questi casi il cliente non ha più la possibilità di godere i valori della montagna, ovvero il silenzio, la lentezza e il rispetto verso la natura. Quella natura che per l'uomo resta inarrivabile: non a caso il grande architetto Le Corbusier, parlando delle Dolomiti, le definì come “l'opera architettonica più bella del mondo”.
Dobbiamo dare ai turisti la garanzia che troveranno quello che stanno cercando, e questo è possibile solo distribuendo i clienti su tutte le Alpi, anche nelle vallate che non hanno avuto la fortuna di costruire un turismo forte come quello che troviamo per esempio in Val Badia o a Madonna di Campiglio. Anche i paesini che hanno un po' di agricoltura e un po' di sentieri devono avere la possibilità di fare un turismo alternativo, perché quello sarà il futuro. Ma ogni vallata deve trovare la propria formula per vendere intelligentemente il proprio terreno.