È molto interessante parlare del futuro del turismo di montagna, e vorrei farlo partendo dalla base, dal rapporto tra turismo e sviluppo dei territori di montagna. Ricordiamoci che la scintilla è scoccata molti anni fa, nella seconda metà del Settecento, e dalla prima scintilla dei primi esploratori che vollero salire le vette alpine, si è capito che il turismo sarebbe diventato un fenomeno stabile, e che avrebbe portato con sé una trasformazione della montagna. Il turismo comporta sempre una trasformazione perché, come è stato detto bene stamattina, un flusso di persone che contemporaneamente si trasferiscono in un altro luogo per abitarlo per alcuni giorni produce inevitabilmente una forte trasformazione di tutti i territori attraversati. Qual è la sfida vera? Che questa trasformazione segua degli andamenti e abbia delle prospettive coerenti con il bene di quei territori. Il turismo non deve asservire a sé un territorio in maniera completa da un punto di vista ecologico, economico, sociale e culturale, portando a una realtà che - è dimostrato da tanti studi - diventa più debole. Tale è il territorio esclusivamente turistico.
Fino a qualche anno fa, anche lungo le nostre strade di montagna, vedevamo il cartello “Menu turistico”, un aggettivo che era positivo. Se oggi lo vediamo davanti a un locale pensiamo “per carità”. Pensiamoci un po': e se lo stesso succedesse anche per l'espressione “località turistica”? Se iniziassimo ad associare a “località turistica” qualcosa di finto, qualcosa che assomiglia più a Disneyland? E allora i pensieri su identità e autenticità sentiti prima dove vanno a finire? Questa secondo me deve essere la preoccupazione fondamentale. Personalmente la montagna “disneificata” mi spaventa tantissimo. Come facciamo a evitare questo destino? Dobbiamo fare delle scelte coerenti e coraggiose; a volte significa non seguire l'onda, cercare di guidare il processo di fruizione turistica verso un destino che sia il più possibile vicino alle esigenze di sviluppo locale, senza sottomettere il territorio alle esigenze del turismo. Le quali esigenze, ricordiamocelo, rischiano di essere pericolosamente brevi nel tempo. Rischiamo di seguire un modello di sviluppo destinato a durare 20 anni, per poi scomparire.
Chi studia prospettive del ciclo di vita delle destinazioni sa che l'Italia, come del resto il mondo, è piena di destinazioni che non sono più attraenti, perché hanno perso la loro capacità di esserlo. Ad esempio perché hanno avuto 20 anni di iperturismo che in qualche modo le ha svuotate, rendendole più povere di quello che erano. Attenzione, portare la montagna in questa deriva sarebbe davvero pericolosissimo, perché non c'è niente di peggio della montagna abbandonata dopo essere stata sfruttata turisticamente in modo eccessivo: pensiamo alle strutture che hanno 20 anni di successo e che poi vengono abbandonate, e pensiamo all'effetto di queste cattedrali nel deserto, a testimoniare una storia finita male.
La montagna ha tutte le caratteristiche per soddisfare i bisogni del turismo. Si sa bene che i bisogni turistici sono stati mappati, ci sono dei bisogni fondamentali: il bisogno della scoperta, quello della socializzazione, quello dello svago, quello del benessere, e via dicendo. Il turismo li risolve tutti, e la montagna può dare delle risposte coerenti e ottime alle principali categorie del bisogno che stanno a monte del fenomeno turistico.
Questo fenomeno negli ultimi anni è stato sottoposto a diversi shock, molto seri. Tutti parliamo da tempo dello shock pandemico, che ci ha mostrato due fenomeni che vorrei sottolineare. Da una parte la crisi del “troppo poco”, con lockdown, chiusure e divieti; dall'altra la crisi del “troppo”. L'abbiamo conosciuta quando sono state lasciate libere le briglie, unitamente al fenomeno del non poter andare altrove. In quel momento c'è stata la rinascita forzata del mito della prossimità, al quale si accompagnava l'idea che la montagna fosse isolata e tranquilla, poiché la confusione è al mare o in città (è questo il mito della montagna).
Ci sono però altre tendenze che negli ultimi 3-4 anni hanno pesato e che peseranno anche nel futuro del turismo in montagna. Penso al riscaldamento climatico, ma anche al paradigma della sostenibilità, che non è più vista come nemica dello sviluppo, o al digitale. Cosa dobbiamo fare in questo contesto? Dobbiamo trovare un modo per gestire questa grande complessità e capire che il limite è un valore, non un problema, per non rischiare di pagare a caro prezzo gli eccessi di un utilizzo sfrenato della montagna, che è fragile per sua natura. È infatti particolarmente esposta ai rischi di un cambiamento irreversibili, in termini ecologici ma anche culturali e identitari. Rischiamo insomma di trasformare la nostra montagna in modo tale che i turisti che vengono a cercarla non la possano trovare.
Questo richiede un forte governo dell'attività turistica. Credo di poter concludere in modo un po' provocatorio dicendo che la montagna per essere apprezzata va capita. Noi non abbiamo bisogno di tanti turisti che vengono in montagna pensando di andare al mare o da qualsiasi altra parte; credo che quando diciamo “vivere il limite” nel senso di “creare del valore”, vuol dire dare dei messaggi in cui si cerca di far capire che la montagna richiede certi atteggiamenti, certe emozioni, e che va vissuta in un certo modo. Se diventiamo un territorio che viene attraversato da migliaia di visitatori rischiamo di andare in una direzione poco sensata e poco credibile.
La considerazione finale é: qual è il buon marketing per una località di montagna? Qual è l'obiettivo a cui tendere? Citando Maurizio Rossini, deve essere quello di farsi scegliere dai turisti giusti, senza crogiolarsi nei numeri in crescita. Usciamo dalla logica del numero ed entriamo in quella del valore. Rendiamoci conto che a volte è più importante e più divertente lavorare con un numero un po' più basso, con turisti che però ci capiscono. E rendiamoci conto che si deve sempre trattare di una relazione tra persone, che non deve essere tra operatore e cliente.