Ho letto qualche tempo fa questo libro di Oliviero Stock, uno dei padri dell’intelligenza artificiale in Trentino negli anni definiti come “l’inverno dell’IA”, quando sembrava che la ricerca non producesse frutti. Il titolo del libro è “Meglio artificiale che niente”. Qui Oliviero dice che “le cose più stupide sentite nella mia vita sono stati i saluti istituzionali delle autorità all’inizio dei convegni”. Non lo dico come captatio, ce l’ho in testa per provare a dire qualcosa di sensato.
Ho in mente un altro libro che ho letto qualche mese fa, un libro molto duro sul turismo: “All intrusive. La montagna tra nostalgie e disillusioni turistiche” di Selma Mahlknecht, sudtirolese, una critica forte al turismo montano, con questa idea del falso autentico, della corrosione del carattere delle comunità locali. Non lo condivido, lo vivo come provocazione, ma accolgo lo stimolo. È del resto quello il ruolo degli intellettuali, lanciare degli stimoli.
Sappiamo che la montagna sta vivendo un momento ottimo dal punto di vista del turismo, soprattutto nel post Covid; sappiamo che nell’epoca dei cambiamenti climatici ci sarà sempre più voglia di stare al fresco, anche se questo non ci deve esimere dall’avere una responsabilità globale, tutti dobbiamo essere impegnati nel contrasto al cambiamento climatico. Ma il punto di quel libro e anche di queste giornate è il rapporto tra esperienza turistica e comunità locale: se si spinge troppo, questa corrosione, questa erosione della comunità locale, sono inevitabili. È una strada stretta da percorrere, tra valore economico, valore culturale e sostenibilità, sia ambientale che sociale.
C’è poi una questione non secondaria che riguarda i lavoratori. Non faccio un ritorno al mio passato, ma voglio sottolineare non è solamente una questione di riconoscimento economico. Come fare sì che i lavoratori del turismo vivano questa esperienza come un’opportunità di autorealizzazione personale, e non solo per avere un salario? E qui torna in gioco l’importanza del rapporto con la comunità locale.
Questa città ha avuto per molti anni una prescrizione per quanto riguarda le potenzialità turistiche: il Castello del Buonconsiglio. Ma turistici non eravamo. Grazie a tante cose, soprattutto grazie al MUSE, abbiamo avuto una svolta turistica. Il MUSE è il simbolo di questo passaggio: non siamo più una prescrizione turistica: non potremmo essere turistici, lo siamo. E lo possiamo essere bene se ci viviamo come gate, come accesso a quello che è il resto del territorio, sapendo che, come diceva Giulia, quello che conta nel territorio è saper coniugare, essere montani ma con l’atmosfera vibrante della città.
L’espressione “desertificazione” quando si parla dei centri storici non mi convince. In centro a Trento c’è più gente di quanta ce n’era anni fa. C’è, non ci sono dubbi, un processo di foodification: è tutto food. Da quando sono sindaco, a Trento sono state aperte 9 pizzerie napoletane. Quando ero adolescente andavamo a Bolzano perché lì c’era il McDonald’s. Ora abbiamo le cicchetterie, il messicano, le pizzerie napoletane. È un continuo aprire, il processo è in atto: pensate a cosa è via Belenzani. Dobbiamo portare un po’ di ordine, il che non è reprimere. È importante avere un’identità dei centri storici: quello di Trento funziona perché è ordinato. Pensiamo a cosa è stato il post Covid con i plateatici, e ora si vuole stare all’aperto in ogni stagione.
Contemporaneamente c’è una crisi forte nel commercio: mi si dirà che sono stati tolti i parcheggi, che sono state fatte le ciclabili, ma in realtà è l’online. Le occhialerie continuano a esserci, e anzi aumentano in città, perché la gente va a provare gli occhiali, pur sapendo che in molti provano nel negozio per acquistare online.
Sono cambiati gli stili di vita. Se prima mangiavi la pizza una volta alla settimana e andavi in bottega, adesso mangi e bevi più spesso fuori, e compri online. È cambiato il centro storico a livello di composizione sociale, con tanti studenti in centro e con i residenti (quelli che potevano) che si sono spostati nella mitica collina est. Al venir meno della popolazione adulta il commercio del centro soffre.
Non deve sembrare piaggeria. Qualche settimana fa, durante un’iniziativa organizzata da Confesercenti, il professor Sciortino ha spiegato che al commercio serve “esperienza”. Anche nei centri storici il commercio ha futuro se quando entro ho quell’esperienza, un di più rispetto all’online. Se non trovo il contatto umano, una persona particolare, un ambiente gradevole, il fatto di cliccare su Amazon diventa imbattibile. Ascoltando gli esperti mi verrebbe da dire che la ricetta per il commercio è questa, e lo dico perché penso che il commercio sia importante, perché un centro di soli ristoranti e bar e senza commercio, renderebbe la città più povera, sia per i turisti che per i cittadini.