Io sono un filosofo, mi trovo in questa università fino dall’inizio. Qui si cerca di coniugare l’aspetto culturale e di pensiero, che è quello che è stato anticipato dal mio vicepresidente, con degli aspetti che riguardano la formazione.
Il cibo è uno strumento molto interessante per ragionare e per operare sui temi che sono stati anticipati negli interventi precedenti. Il cibo interviene nel campo della transizione ecologica, dei diritti, del mondo di vivere, della giustizia e della politica. Perché il cibo riguarda tutti, è necessario a tutti, alla vita umana e in generale. È al centro di una serie quasi infinita di aspetti.
È legato alla salute umana, all’energia, al consumo, alla rappresentazione di come le persone vivono e si rappresentano, è legato alla socialità. Una delle principali metafore della vita umana è la convivialità; intendiamo mangiare insieme, ma letteralmente “convivio” è vivere insieme. Il cibo ha preso questa metafora del vivere insieme, che è legata al fatto che spesso gli umani mangiano insieme. Molte guerre sono state fatte per le risorse base per la sopravvivenza, dall’acqua al grano. Il cibo è inoltre legato al trasporto, ed è uno strumento di scambio e di diplomazia.
Stamani sono state usate delle parole chiave come sostenibilità, responsabilità, tradizione, ospitalità, qualità, che trovano nel cibo una declinazione assolutamente paradigmatica, esemplare, centrale.
Si pensa all’università di gastronomia come a un luogo in cui si insegna a cucinare. Non è così: si insegna a studiare il cibo da un punto di vista multidisciplinare, olistico, sistemico. Il cibo è un sistema complesso. Intanto bisogna studiare il cibo da questo punto di vista, e poi si formano degli specialisti che possono operare in diversi settori, da quello della promozione a quella distribuzione e della valorizzazione del cibo, del commercio e del turismo. Ma con questa consapevolezza, non con una visione chiusa, quanto con una visione in cui c’è uno specialismo di sistema. Uno specialismo tipico di una mentalità artigianale; nel senso del modo di pensare di chi ha in mente tutto il processo, dall’inizio alla fine della lavorazione, a differenza dell’operaio industriale fordista, che conosce solo il suo pezzettino, senza essere tenuto a sapere cosa c’è prima e cosa c’è dopo, e senza averne responsabilità.
La nostra piccola università è a Pollenzo, frazione di Bra, dove è nato Slow Food, ed è stata sviluppata soprattutto grazie a Carlo Petrini, che insieme ad altre persone – tra cui Silvio Barbero – sviluppò un’idea della necessità di una figura che avesse la dignità di una formazione universitaria. È la prima università al mondo dedicata al cibo da questo punto di vista, sistemico, olistico, complesso, con discipline scientifiche, tecnologiche e umanistiche.
Abbiamo un corso triennale, un corso magistrale, un dottorato, diversi master, una formazione completa, per quanto con piccoli numeri. Questa università è così piccola e così lontana dai grandi centri, ma è famosa in tutto il mondo: dei 3.000 studenti che si sono laureati presso di noi in questi anni, quasi il 50% non è italiano.
Questo modello di pensiero, di cui abbiamo detto alcuni punti, è un modello che non si rivolge soltanto alle eccellenze italiane; ovvio però che molti esempi e molte realtà che gli studenti vivono sono italiane. Abbiamo fatto tante cose per esempio con il Trentino. Ma il modello ha l’ambizione di pensare all’importanza del cibo – e al cibo come strumento di conoscenza e di formazione – a livello globale.
Questo è il nostro ambiente formativo, e alla base di tutto c’è il concetto di qualità, inteso non solo come qualità del prodotto alimentare, quanto anche come modo di relazionarsi al cibo; che non guarda soltanto al prodotto finale, ma che guarda anche tutto ciò che sta prima, che guarda la trasformazione, la materia prima, le relazioni sociali che sono alla base di prodotti di buona qualità.
La buona qualità non è soltanto alla fine, è anche all’inizio. E molto spesso anche quando si parla di turismo, la sfida è curare i processi qualitativi che nascono nei territori, che nascono dalle persone, dai legami sociali. La qualità non è soltanto un fatto tecnologico, è soprattutto un fatto sociale, culturale, filosofico, antropologico, è un modo di approcciarsi al mondo e di guardare alle cose.
Tra i cambiamenti di paradigma citati da Barbero ci sono anche il cambiamento di valori, di atteggiamenti che abbiamo verso le cose, verso i cibi, verso la vita. Da qui l’importanza dell’educazione.
Un albergatore tempo fa mi ha detto che la qualità dei suoi alberghi è data da ciò che manca, dalla scelta di non mettere e non offrire certi prodotti, di nascondere il Wi-Fi, di non dare per scontate alcune cose.
Ecco perché la filosofia, la storia, la cultura: si tratta di temi che necessitano di queste prospettive. Tutto ciò non deve peraltro essere visto come nostalgia del passato. Si tratta di un futuro che non è già scritto, che deve essere già scritto. Quando avevo 20 anni i futurologi dicevano che il futuro era dei compact disc: io fui uno dei cretini che decisero di svendere i vinili faticosamente collezionati. Dopo 30 anni, i vinili ci sono ancora, i CD sono sorpassati.
Il futuro non è scritto, bisogna aprirsi alla tecnologia, ma ciò non vuol dire sostituire in toto ciò che ha dato buona prova di sé. Le tradizioni non vanno conservate come cosa vecchia da museo, non è un catalogare le cose per ricordarsi di un passato che fu: bisogna farle vivere, perché a volte ritornano come strumenti e come idee di cambiamento, per un futuro migliore, per una qualità della vita migliore, per una maggiore sostenibilità.
La qualità è questo, e quello che cerchiamo di dire nella nostra università, ognuno dal suo campo. Bisogna sviluppare l’idea della consapevolezza del cibo, come strumento di consapevolezza globale per costruire un futuro migliore.
La zona in cui è nata l’università è molto interessante: è passata dall’essere molto rurale, molto povera, marginale, per arrivare a essere una delle zone più importanti a livello mondiale per l’enogastronomia. Quella delle Langhe è stata una trasformazione molto interessante. Una parte è ancora fortemente radicata in quella che Fenoglio chiamava “la malora”, ovvero la ristrettezza, il senso di comunità, i paesini; e c’è un’altra parte che guarda da una parte diversa, che ha portato alla costruzione dell’università, in modo anche molto generoso. Quando il territorio ha iniziato a diventare ricco, è stata ridistribuita una parte di questa ricchezza, creando questa realtà formativa. Il fatto di essere in una zona marginale, non in una metropoli, ha favorito la nascita di una realtà di questo tipo.
Tutto parte da un pensiero dei decenni precedenti, da slow food, dall’idea di sensibilizzare la popolazione civile sui rischi di certe perdite. Le radici le troviamo negli anni Cinquanta, dal Viaggio lungo la valle del Po di Mario Soldati e dal pensiero di altri autori, che iniziarono a denunciare il fatto che l’industrializzazione selvaggia porta a un rischio di perdita di culture, di tradizioni. Da lì, attraverso slow food, si è arrivati a questo progetto, qualcosa che poteva nascere meglio in una zona rurale.